26 giugno 2011

Grande successo per il convegno 50° anniversario 700 ore in grotta svoltosi al Palasagra di Frabosa Sottana


Si è svolto sabato e domenica a Frabosa Sottana l’incontro-convegno per celebrare il 50° anniversario della spedizione “700 ore in grotta” organizzato dal Comune di Frabosa Sottana e dall’Associazione Turistica Mondolè in collaborazione con la TAM, Commissione Tutela Ambiente Montano del Club Alpino Italiano di Torino. Domenica pomeriggio presso il Palasagra di Frabosa Sottana di fronte ad un pubblico numeroso ed attento sono intervenuti il Sindaco Dottor Giovanni Comino, il direttivo TAM, alcuni reduci della spedizione del 1961, i rappresentanti dei CAI Uget ed il Prof Bartolomeo Vigna, geologo docente del Politecnico di Torino.

La spedizione “700 ore sottoterra è stato un importante esperimento scientifico organizzato dal CAI UGET di Torino svoltosi nelle Grotte del Caudano in località Miroglio di Frabosa Sottana (Cuneo) nell’estate del 1961. L’operazione fu ideata dal professore Prospero Masoero e dalla professoressa Anna Maria Di Giorgio dell’Istituto di Zootecnia dell’Università di Torino con lo scopo di condurre uno studio completo di carattere biio-ambientale del mondo sotterraneo. L’eccezionale impresa è stata compiuta da 12 giovani studiosi: il professor Silvano Maletto, capo spedizione; il dr. Franco Valfrè, segretario; il dr, Renzo Gozzi ed il dr. Cesare Volante medici; il dr. Paolo Durio e il dr Pierangelo Raviola, farmacisti; il dr. Ettore Ferrio, veterinario; il dr. Giancarlo Masini, chimico; il dr. Alessandro Gallice e il dr. Franco Merletto, agronomi; il dr. Cesare Patrucco e l’ing. Giovanni Massera nel campo esterno assistiti da due alpini.


Fra strumenti scientifici ed attrezzature varie, fornite dai vari enti ed istituti universitari che collaborarono alla spedizione, erano presenti in grotta 17 tonnellate di materiali, per un valore complessivo di oltre mezzo miliardo di lire. Erano tre gli indirizzi scientifici della spedizione: uno di studi chimico-fisici sulle caratteristiche dell’ambiente; uno di ricerche particolari sulla biologia dell’uomo nell’ambiente ipogeo e sulle modificazioni apportate dall’habitat sugli organi e apparati degli esseri viventi; uno che comprendeva ricerche cliniche, psicologiche e neuroendocrine su animali e uomini.
Per le ricerche biologiche e zootecniche, erano stati portati sotto terra numerosi animali: due vitelli, quattro pecore, 26 galline, 49 pulcini; tutti gemelli monocoriali, cioè perfettamente identici ai loro fratelli lasciati all’esterno.


Per l’operazione fu scelta la Grotta del Caudano grazie al suo andamento pressoché orizzontale, per la comodità di accesso e per la possibilità di attrezzarla facilmente.
Partendo dall’ingresso si aveva la seguente dislocazione dei vari impianti: a circa 50 metri una spia di segnalazione veniva accesa per indicare agli speleologi la corvèe esterna che depositava viveri e materiali.
A circa 100 metri era stato allestito lo stabulario: con la pulcinaia, le stie delle galline ed i recinti dei vitelli e delle pecore. Più vanti erano posti i servizi igienici cui seguivano, a debita distanza, i pozzi di presa dell’acqua potabile.
A metà della grotta era installata la cucina, mentre nella parte conclusiva erano dislocati l’infermeria e il campo base interno con le tende per il riposo notturno.
L’esperimento è durato in tutto 756 ore, con l’ingresso in grotta la sera del 6 agosto 1961 a mezzanotte e l’uscita il 7 settembre a mezzogiorno.
La quota calorica media è stata superiore rispetto a quella normale in superficie con un fabbisogno necessario di 6000 calorie giornaliere; questo a causa della grande dispersione termica e per l’elevato dispendio di energie: Cinque membri della spedizione decisero di alimentarsi con razioni militari “K”, ma questa dieta fu ben presto abbandonata per il verificarsi di manifestazioni emorroidali. Il dr Giancarlo Masini ha dovuto abbandonare la grotta dopo appena sette giorni per un banale incidente.
La posta poteva essere soltanto spedita (e non ricevuta) mettendola in un sacchetto di plastica che veniva lasciato su una pietra nella stanza degli animali; gli uomini del campo esterno provvedevano poi, in assenza degli speleologi, a prelevarla e spedirla.
La sveglia era fissata per le sette con l’inizio delle ricerche, ognuno nel proprio campo, non prima di essersi sottoposti al prelievo del sangue, alle prove ortoclinostatiche e all’esame della diuresi.
Passati alcuni giorni dall’inizio dell’esperimento si rese evidente un fatto singolare: al buio assoluto gli speleologi vedevano il visto di chi gli stava di fronte; ancora oggi non è stato possibile chiarire le cause di questo strano fenomeno.
Dopo 720 ore di permanenza in grotta si verificò un fatto mortalmente pericoloso: da tempo, nello studio della composizione dell’aria, era stata notata la fluttuante presenza di una notevole percentuale di ossido di carbonio con punte massime ogni 5-6 giorni e registrabili sempre nelle prime ore della giornata. Ma la penultima notte di permanenza nel laboratorio sotterraneo, l’ossido di carbonio raggiunse percentuali di gran lunga superiori a quelle sopportabili. Solo la prontezza di spirito di tre uomini di guardia, muniti di un apposito apparecchio (pistola di Auer) permise a tutti di mettersi in salvo, impedendo così che la spedizione si tramutasse in una tragedia.


Negli esseri umani si è riscontrato un aumento dei globuli rossi , dei globuli bianchi e delle gamma-globuline nel sangue; quasi il doppio del normale. Vitelli e pecore dopo un mese di vita sotterranea presentavano una maggior calcificazione delle ossa e pelo più scuro. Le galline deponevano uova più pesanti rispetto alla media esterna. Tra i pulcini si verificò una mortalità del 28%; questo per le avverse condizioni ambientali che determinarono una vera e propria selezione naturale.
All’uscita quasi tutti i membri della spedizione non vedevano ben distinti i colori tenui perché i loro occhi erano diventati sensibili ai raggi infrarossi; si acuì inoltre la sensibilità agli odori del mondo esterno perché nelle grotte essi mancano del tutto.
“Siamo entrati amici e siamo usciti fratelli, abbiamo visto il mondo più bello, abbiamo apprezzato la vita, il sole, i colori, tutto: se anche fosse stato solo questo il risultato della spedizione, valeva la pena farlo.”



CLUB ALPINO ITALIANO
COMMISSIONE PIEMONTESE VALDOSTANA
TUTELA AMBIENTE MONTANO


50° anniversario spedizione “700 ORE IN GROTTA”
INCONTRO-CONVEGNO FRABOSA SOTTANA 25/26 GIUGNO 2011

Le “GROTTE del CAUDANO”
contributo di Alberto Verardo


Quando mi è stato chiesto di svolgere un intervento nel contesto dell’incontro-convegno di questi giorni, promosso per celebrare il 50° anniversario della spedizione “700 ore in grotta” organizzato dal Comune di Frabosa Sottana e dall’Associazione Turistica Mondolè in collaborazione con la Commissione Tutela Ambiente Montano del Club Alpino Italiano di Torino, non essendo io persona competente in speleologia, in grado di svolgere una trattazione tecnico-scientifica che sarebbe peraltro stata oggetto di interventi di ben più spessore e contenuto il giorno dopo, ho immediatamente pensato di declinare l’invito manifestando questo mio orientamento a chi me lo aveva proposto unitamente, ovviamente, ai ringraziamenti per il lusinghiero invito.
L’insistenza discreta e la gentilezza con cui l’invito è stato ribadito mi ha poi convinto a svolgere un breve intervento in questa occasione che dedica la serata alle Grotte del Caudano oggetto, domani, di visita o rivisitazione da parte di molti di voi e che, nella circostanza, potranno essere percorse anche in alcune parti attualmente ancora escluse dal tradizionale percorso turistico.
È stata una rapida riflessione sul tema della serata che mi ha riportato alla mente l’esperienza “speleologica” vissuta circa trent’anni orsono con un gruppo di persone – prevalentemente villeggianti come ero e sono tuttora anch’io - sotto l’abile guida di esperti speleologi appartenenti (mi scuso in anticipo se così non era) al gruppo speleologico “Alpi Marittime” di Cuneo, che mi ha convinto ad intervenire con questo mio piccolo contributo per raccontare l’esperienza vissuta, miscelata con un poco di storia.
Inizio raccontando un aneddoto che non ha nulla in comune con la tematica delle grotte ma che ritengo ricco di significato per introdurmi, con rispetto e la dovuta attenzione in essa.
L’aneddoto riguarda Alessandro III° Re di Macedonia – regione che occupava la parte settentrionale dell’antica Grecia -, Alessandro il Grande, come lo definiscono i testi tramandatici, fu uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia.
In soli dodici anni egli conquistò l'intero Impero Persiano, dall’Asia Minore all’Egitto fino agli attuali Pakistan, Afghanistan ed India settentrionale.
Le sue vittorie sul campo di battaglia, furono sempre accompagnate da una diffusione universale della cultura greca e dalla sua integrazione con elementi culturali dei popoli conquistati.
Morì a Babilonia nel 323 a.C. e la sua leggenda racconta che, prima di spirare, egli abbia convocato i suoi generali per comunicare – forse sarebbe meglio dire ordinare considerato il suo rango - le sue ultime tre volontà:
La prima – Che la sua bara fosse trasportata sulle spalle dai medici che lo avevano assistito.
La seconda – Che i tesori che aveva conquistato (oro, gioielli, ricchezze, ...) fossero sparsi sulla strada che gli sarebbe stata fatta percorrere verso la tomba.
La terza – Che le sue mani, libere da ogni aggetto, fossero lasciate penzolare fuori dalla bara in modo che, al suo passaggio, tutti avessero modo di vederle.
Uno dei generali, si interrogava su queste insolite ultime volontà e, incuriosito, con la dovuta deferenza chiese al Sovrano quali fossero i motivi, il significato, delle richieste.
Alessandro comprendendo la perplessità del generale ma anche degli altri che non avevano avuto il coraggio di rivolgergli la domanda, rispose:
– Voglio che siano proprio i medici a trasportare la mia bara per dimostrare che davanti alla morte non hanno alcun potere di contrastarla.
– Voglio il suolo ricoperto dai miei tesori per far comprendere a tutti che i beni materiali accumulati durante la vita terrena, restano alla terra ed a coloro che mi sopravvivono.
– Voglio le mie mani, libere da ogni arma e da ogni prezioso monile siano esposte al vento, perché la gente veda che come a mani vuote ciascuno di noi viene nel mondo, a mani vuote dal mondo si allontana.
C’è un solo tesoro, un unico bene prezioso, di cui noi vorremmo in ogni circostanza disporre e poter governare, ma il cui limite però non siamo noi a determinarlo; un bene al quale sempre dobbiamo sottometterci: il tempo.
È infatti il tempo, il dono più prezioso che ogni giorno ciascuno di noi riceve.
Il tempo è vita: la nostra, quella delle cose, quella dell’ambiente naturale che ci circonda o con il quale ci rapportiamo.
Ne consegue allora la necessità di attenzione a non sprecarlo, di renderlo proficuo per conoscere ed apprendere, ma più ancora di rispettarlo nel suo trascorrere e da quanto da ciò ne consegue; quello stesso rispetto che occorre avere quando, confrontandoci con la natura, l’ambiente esterno ed il mondo ipogèo, riconosciamo in tutto ciò il lungo, paziente, stupendo lavoro che il tempo, lentamente, senza clamore, con puntualità, compie.
L’esperienza che mi sono ripromesso di raccontare inizia quando, in un caldo pomeriggio di agosto dei primi anni 80 del secolo scorso, il piccolo gruppo di cui ho parlato in precedenza, a conoscenza della presenza delle grotte che fin dal momento della scoperta erano state oggetto di mistero e curiosità, ha convenuto di sperimentare il mondo sotterraneo, l’esplorazione delle caverne del Caudano che la Val Maudagna custodiva gelosamente dal dicembre del 1898, quando furono scoperte durante la costruzione del serbatoio per l’acquedotto della centrale idroelettrica di Frabosa Sottana.
L’intendimento dell’Ing. Vittorio Trona, incaricato dell’opera, era quella di utilizzare la sorgente che, appena uscita dalla rupe, andava a perdersi nel torrente Maudagna dopo poche decine di metri.
Lo spirito che prevaleva nel gruppo non era certamente quello scientifico ma bensì quello di avventura; l’esplorazione di una grotta non aperta al pubblico ed ancora priva di illuminazione e di percorsi obbligati, ci avrebbe permesso di fare qualche cosa che non tutti, in quel momento, potevano fare e che forse, non tutti avrebbero fatto o potuto fare in seguito.
Per me una occasione imperdibile, un mondo praticamente sconosciuto, che avrei vissuto da “speleologo” in un ambiente per buona parte ancora incontaminato o scarsamente praticato.
L’emozione mista alla curiosità, forse anche velata da una latente paura per l’ignoto che andavo ad affrontare, era in quel momento sicuramente tanta anche se oggi la rivivo, inevitabilmente ed ovviamente, con maggiore freddezza e distacco.
L’avventura scientifica vissuta all’interno della cavità del Caudano da un gruppo di dieci studiosi (ad essi sono da aggiungere un medico ed un tecnico del campo base esterno) nell’estate del 1961 denominata “700 ore sottoterra”, di cui avevo sino a quel momento sentito parlare, poteva essere da me rivissuta – almeno parzialmente, sintetizzata in una camminata impervia di 90 minuti (?) ricca di ostacoli (forse in parte gli stessi) - dopo circa vent’anni.
Attrezzati con scarponi o stivali, indumenti non certo da passeggio, K-way o giacconi impermeabili, macchine fotografiche per immortalare scorci o situazioni interessanti giudicati tali dall’insindacabile valutazione personale, ci siamo presentati all’appuntamento nel punto che ancora oggi consente il passaggio del torrente Maudagna.
Allora il parcheggio per le auto era prevalentemente lungo la strada e la strada di accesso alla grotta meno agevole dell’attuale; il riferimento era il gigantesco ippocastano che faceva bella mostra di se sul lato destro della strada verso il Capoluogo.
La presenza di esperti speleologi rassicurava e tutti facevamo riferimento a loro per chiarirci il comportamento da tenere all’ingresso in grotta, nel percorso, in quant’altro di interrogativo si affacciava alla nostra mente.
Tutti ricevemmo il casco protettivo con lampada a pila e ci avviammo verso l’ingresso che scoprimmo, quando arrivammo in quota, essere un vero e proprio buco sulla parete del monte, occultato opportunamente ed il cui accesso era impedito dalla presenza di un cancelletto in ferro, tenuto chiuso da un lucchetto.
Le preferenze e le simpatie di ciascuno ci avevano fatto scegliere la nostra guida di riferimento ed io mi ero aggregato ad un signore che, più degli altri, ma non saprei dire per quale motivo, mi ispirava maggiormente: forse i baffi che mi ricordavano mio padre.
Il suo aspetto era impeccabile: indossava una tuta cerata integrale di colore verdastro, quasi mimetica e calzava un casco di colore rosso con lampada ad acetilene la cui fiammella mi attirava particolarmente; fu lui a spiegare che era bene che tutti lo seguissimo perché nel caso che durante il percorso avessimo trovato zone nelle quali l’ossigeno fosse venuto meno, la fiammella della sua lampada si sarebbe spenta e lui ci avrebbe comunicato di tornare immediatamente indietro evitando conseguenze.
Prima di entrare, con scarni ed essenziali discorsi, come è tipo degli uomini di montagna e di coloro che sono abituati al silenzio, ci vennero comunicate alcune informazioni e forniti alcuni dati sulla grotta.
La grotta aveva tre ingressi distinti, ma in pratica se ne utilizzava uno soltanto corrispondente alle gallerie del secondo piano; i diversi piani della cavità, in totale quattro sovrapposti tra i quali scorreva un torrente, erano occasionalmente comunicanti e ciò permetteva di passare da un piano all’altro nonostante le interruzioni prodotte da riempimenti e da sifoni; la quota di ingresso era a circa 780 metri sul livello del mare; la grotta nel suo complesso aveva uno sviluppo di circa 3 chilometri ed il tratto che noi avremmo percorso era di diverse centinaia di metri.
La temperatura in grotta era abbastanza stabile intorno ai 12°C e la grotta derivava il suo nome dal termine del dialetto piemontese che significava caldo; il nome era stato dato in conseguenza del fatto che il piccolo torrente presente, che scaturiva dalle viscere della montagna, manteneva sempre una temperatura di alcuni gradi sopra lo zero e che, pertanto, anche nel cuore dell’inverno, non gela mai.
Entrammo ed iniziò la mia esperienza speleologica.

Proiezione delle slide “Grotta del Caudano”

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Quando “uscimmo a riveder le stelle”, per dirla con le parole del sommo Poeta Dante, anche se era ancora pomeriggio, la soddisfazione era palpabile in tutta la compagnia al punto da chiedere alla nostra guida di consumare con noi un caffè ristoratore ed avere così modo di ringraziarlo ed anche di approfondire alcuni aspetti della visita.
Durante il tragitto in grotta il tempo era letteralmente volato ed anch’io avevo notato molti particolari interessanti che avrei voluto approfondire sul momento, ma il disagio che soffrivo nel percorrere i camminamenti con attenzione massima per non incorrere in qualche piccolo incidente di percorso, era tale da non consentirmi di porre eccessive domande e svolgere approfondimenti se non occasionali.
Ritornammo alle auto per cambiarci e risalimmo verso Miroglio, la nostra base, con sosta all’American Bar.
La chiacchierata fu lunga ed interessante e quell’esperienza è rimasta impressa non solamente nella mia memoria, ma più ancora nel mio cuore per la sua unicità e la casualità che l’ha permessa; di questa memoria è parte l’ambiente visitato ed il personaggio al quale mi ero affidato in modo totale.
Nei giorni successivi e negli anni che seguirono l’esperienza vissuta in prima persona tornava spesso alla mente.
Rivedevo il percorso arduo, impervio e buio, che avevo compiuto con impegno, desideroso di fotografare tutto (purtroppo con risultati molto limitati per inesperienza fotografica e per doverlo fare più intuitivamente che non vedendo ciò che facevo) perché rimanesse traccia per il futuro; ripercorrevo lo sviluppo della grotta che in certi tratti era necessario percorrere chinati ed in altri quasi strisciando; rivivevo i percorsi attraverso le fratture delle rocce di notevoli dimensioni allargate da acqua in certi punti circolante ed in altri a pelo libero, quasi fosse stagnante.
Rivedevo le sezioni che a me erano apparse ricche di ombre e quindi più caratteristiche, di forma stretta ed alta, i condotti a sezione ellittica ed i canali con la volta semicircolare.
Molto particolari mi erano apparsi i soffitti perfettamente orizzontali presenti in vari punti del tratto di grotta percorso; solo dopo ho scoperto che questa forma non era dovuta al tipo di litologia presente, ma era legata alla costanza del livello idrico ed alla sua portata.
Mi aveva altresì colpito, senza essere in grado di darmi risposta, un’altra particolarità di questi soffitti rappresentata dalla presenza di canali di corrosione incisi dall’acqua e ricolmi di argilla.
Anche in questo caso è stato l’approfondimento che mi ha dato a spiegazione: erano molto presenti ed abbondanti i riempimenti dovuti a concrezioni e così pure quelli argillosi che in epoche precedenti avevano anche provocato la chiusura totale di alcune gallerie.
Tutte le volte che ripenso all’incursione compiuta in quegli anni all’interno delle Grotte del Caudano rivedo prevalentemente alcune immagini che sono diventate per me l’abbinamento immediato dell’esperienza compiuta con l’insegnamento che ne ho ricavato:
l’acqua ha modellato, nel corso dei secoli, numerose rocce e concrezioni facendogli assumere le forme più strane, che con un po’ di fantasia possono essere paragonate a oggetti o addirittura animali come “il lampadario”, “la zampa del dinosauro” o “la testa del rinoceronte”; ma c’è anche una quarta immagine che mi è molto cara ed alla quale sono particolarmente legato,quella della mia guida a cui devo molto perché molto, oggi mi accorgo, mi ha dato: dai comportamenti rispettosi dell’ambiente, all’amore per la montagna, dalla discreta riservatezza nell’esprimersi, alla ponderata valutazione delle parole.
Dopo quella esperienza altre volte sono stato in grotta, in particolare a partire dal 2006 quando ultimato l’impianto di illuminazione, da turista, ho potuto rivedere e ritrovare gli ambienti e parte degli spazi che avevo conosciuto ed apprezzato molti anni prima.
Ambienti grandi e spettacolari, caratterizzati da vaste ed articolate concrezioni, da spettacolari stalattiti e stalagmiti di notevoli dimensioni, da reperti fossili ed incisioni preistoriche.
Le ampie sale oggi denominate (ma forse i nomi erano stati attribuiti già in precedenza) Verne, generale La Marmora e del Presepio … perché n essa è presente il presepe natalizio che annualmente partecipa con successo all’iniziativa “Presepi in casa” promossa dalla Parrocchia e dall’Associazione Onlus San Biagio di Miroglio.

Con questo riferimento avrei concluso la semplice e forse un po’ noiosa narrazione di una esperienza per me unica e particolarmente significativa.
Se sono riuscito ad interessarvi sono contento perché ho conseguito un risultato che mi pareva difficile da ottenere; se invece, come credo possa anche essere stato, non ho corrisposto alle attese avendo fatto prevalere il difetto della presunzione all’umiltà di riconoscere che non ero all’altezza della situazione, mi permetto proporvi questo breve filmato che auspico mi rappacificherà con voi per l’augurio che contiene.

Proiezione delle slide “Le due anfore”